In molti parlano di meritocrazia in Italia. Ma si fanno pochi progressi in questo senso e tanti giovani promettenti rimangono fermi, non premiati o addirittura disoccupati, come dimostrano i preoccupanti dati di ieri. Perché?
Il primo motivo è che manca la fiducia reciproca. Gli italiani si fidano pochissimo degli altri, meno di quanto lo facciano gli anglosassoni o gli scandinavi, come dicono tutte le statistiche. Dato che per premiare il merito qualcuno deve decidere dove il merito sta, se non ci si fida di chi sceglie, non si accetta la meritocrazia.
Si cerca di aggirare questo problema stabilendo regole che dovrebbero automaticamente premiare i migliori, togliendo ogni giudizio personale, di cui appunto non ci si fida.
In realtà queste regole di solito falliscono, o perché è impossibile stabilire criteri oggettivi o, peggio, perché fatta la regola si trova l'inghippo. Quando un collega giovane è promosso, invece che al suo merito si pensa subito (magari a ragione) alla raccomandazione e al favoritismo. E se si pensa che il favoritismo sia prassi comune allora perché non scegliere un amico o parente quando spetterà a noi decidere? E quindi si ritorna a promozioni solo per anzianità, e quando si finisce in questo circolo vizioso è difficile uscirne.
Il secondo problema è il "familismo amorale", come lo definiva Edward Banfield, e quindi il nepotismo. Si badi che la famiglia è senza dubbio un'istituzione fondamentale. Quella che critico è una certa degenerazione della famiglia.
Come notava Roberto Perotti nel suo libro sull'università italiana ("L'università truccata") il nepotismo all'interno di quest'ultima è rampante. Uno dei casi più citati era quello del dipartimento di economia dell'università di Bari con sette professori con lo stesso cognome. E non era un caso isolato. Lo stesso vale in molti altri settori. Quanti figli fanno la professione (chiusa alla concorrenza) dei padri perché hanno un accesso privilegiato e non perché ne abbiano il merito? Come predicare la meritocrazia a chi un padre privilegiato non l'ha?
È ovvio che vi sono situazioni perfettamente legittime di padri e figli nella stessa professione, ma il problema nel suo complesso esiste. Le connessioni familiari sono il principale meccanismo di collocamento, oliato da favori reciproci.
È questo il metodo ottimale di incontro tra domanda ed offerta di lavoro in un'economia post-industriale? Ne dubito.
Il terzo problema è la mancanza di competizione. In un mercato competitivo e regolato da leggi applicate con rigore e senza privilegiati, un'azienda non sopravvive se non è produttiva. Ecco allora che c'è l'incentivo a premiare i migliori all'interno dell'azienda stessa. Dove la competizione non c'è o è viziata, ciò non vale più e allora sopravvive chi ha appoggi politici che nulla hanno a che fare con il merito.
E poi, come creare incentivi giusti nel settore pubblico dove la competizione di mercato spesso non esiste? Non è impossibile. Un esempio. Negli anni 90 in Inghilterra s'introdusse un sistema per cui se un ospedale riduceva i tempi di attesa al pronto soccorso gli erano date risorse aggiuntive. I risultati furono veramente postivi: i tempi di attesa medi crollarono. Immaginatevi una proposta simile in Italia: cori di lamentele per ingiustizie varie, misurazione di tempi di attesa impugnate al Tar, eccetera. Nessuno si fiderebbe del sistema. Gli insegnanti si sono recentemente opposti a un meccanismo di valutazione del loro lavoro nelle aule essenzialmente perché dicevano di non fidarsi dei valutatori. Ecco che ritorniamo al primo punto: la mancanza di fiducia reciproca.
Purtroppo questa mancanza di fiducia viene dalla nostra storia. Non è qualcosa che si modifica in fretta, ma se non se ne parla e si continua a pensare che si possa risolvere tutto con concorsi pubblici minuziosamente regolati da leggi e leggine, professioni chiuse, promozioni per anzianità e famiglia come agenzia di collocamento non offriremo grandi speranze ai giovani di oggi.
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