venerdì 1 aprile 2011

Social Card: la vogliamo fare seriamente?

Articolo di Ugo Trivellato pubblicato su www.lavoce.info


La legge di conversione del Milleproroghe prevede la sperimentazione di una nuova social card.
Cosa differenzierà la social card sperimentale (Scs) da quella esistente? La legge è parca di indicazioni: raggiungere le «persone e famiglie in condizioni di grave bisogno»; affiancare al sussidio monetario «progetti individuali di presa in carico»; coinvolgere gli enti non profit; svolgere la sperimentazione nei comuni con oltre 250mila abitanti; finanziarla con 50 milioni di euro. Stabilisce poi che la sperimentazione durerà dodici mesi. Nulla è detto su che cosa accadrà dopo.
Dunque, molto è ancora da definire. Lo farà un decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali. Il prossimo mese va utilizzato per un confronto sulle modalità che è bene assuma la sperimentazione.

IL CONTESTO ENTRO IL QUALE COLLOCARE LA SCS

È essenziale che la sperimentazione faccia parte di un progetto organico di rafforzamento del nostro welfare. Quanto consentirà di imparare va utilizzato per aumentare l’efficacia della Scs e per rivolgerla a una quota via via più ampia di famiglie. Sennò, perché mai si dovrebbe “sperimentare”?
Perciò la sperimentazione va collocata entro un processo che porti a coprire, nell’arco di un contenuto numero di anni, tutte le famiglie in povertà assoluta.
Inoltre, va condotta in modo da comprendere quali siano le modalità più appropriate di fornitura della Scs e delle misure di accompagnamento e quali le implicazioni finanziarie e organizzative per la sua estensione.

LE CARATTERISTICHE DI MERITO

Le caratteristiche di merito che – alla luce della legge, di un criterio di coerenza normativa e di argomenti ragionevoli – dovrebbe avere la Scs sono le seguenti.

(a) In che senso la Scs sarà “nuova”? Innanzitutto nella sua consistenza. Non una somma fissa. Invece, un ammontare pari al 40 per cento della differenza fra il reddito effettivo di una famiglia e la corrispondente soglia di povertà assoluta. La Scs è così commisurata (i) all’entità della povertà e (ii) al livello del costo della vita in diverse parti dell’Italia.

(b) Per vincoli di bilancio, le famiglie alle quali si rivolge la sperimentazione rimane quello attuale: famiglie povere con persone di almeno 65 anni o con bambini entro i 3 anni.

(c) Alla Scs si affiancano «progetti individuali di presa in carico»: con servizi per l’occupazione, educativi, sociali, di cura. Questi servizi sono fondamentali per l’inclusione sociale e, per le persone che siano (re)inseribili nel lavoro, perché accedano a un’occupazione ed escano dallo stato di povertà. I progetti dovranno riguardare tutti i membri della famiglia. Non avrebbe altrimenti senso l’obiettivo loro assegnato: «il superamento della condizione di povertà, emarginazione ed esclusione sociale».

(d) La preoccupazione di raggiungere «le persone e famiglie in condizioni di grave bisogno» va interpretata nel senso che la popolazione-obiettivo include gli stranieri residenti e i senza dimora.

(e) Grandissima parte della popolazione italiana, l’85 per cento, vive nelle città medie e nei piccoli comuni. Nella logica di un intervento finalizzato innanzitutto ad apprendere se e come la Scs funzioni, la sperimentazione deve essere condotta nelle grandi città (se vi fossero difficoltà organizzative, limitatamente ad alcuni “municipi”) e può – ed è bene sia – condotta anche in un piccolo campione ragionato di comuni medi e piccoli.

(f) La legge prevede che la sperimentazione sia avviata tramite enti non profit. Nel definire requisiti e obblighi per tali enti deve valere il criterio per cui essi rivolgono la loro attenzione a tutti i potenziali beneficiari. Se ciò non fosse, quello che si prefigura come un diritto di cittadinanza diventerebbe invece una sorta di obbligo di (o comunque di premio alla) affiliazione. Agli enti non profit non può dunque essere delegata la definizione dei criteri di accesso e di revoca della Scs.

In secondo luogo, un obiettivo cruciale della sperimentazione è vagliare e comparare funzionamento ed esiti di diversi “modelli” organizzativi di erogazione della Scs. Sennò, vale la pena di ripeterlo, perché “sperimentare”? Di massima i modelli possono essere ricondotti a tre: (i) un modello che poggi sui soli comuni; (ii) uno incentrato sui soli enti non profit; (iii) uno fondato sulla collaborazione fra enti non profit ed enti locali, che svolgono essenziali funzioni di direzione e coordinamento.

GLI OBIETTIVI CONOSCITIVI DELLA SPERIMENTAZIONE

È importante soffermarsi brevemente sugli obiettivi della sperimentazione. Con una premessa. “Sperimentare” non vuol dire introdurre innovazioni provando a casaccio. Significa l’opposto: introdurre su piccola scala un’innovazione (o più modalità alternative di realizzarla) per apprendere se essa funzioni o meno (o quale delle modalità di realizzazione funzioni meglio). Con l’implicazione che ne discende: disegnare l’esperimento in modo che consenta di stimare al meglio l’effetto dell’innovazione.
L’opportunità, e insieme la sfida, che la Scs offre è di prendere la sperimentazione sul serio. È questa la prima, decisiva scelta che si è chiamati a fare.
Occorre poi delineare un razionale disegno di sperimentazione della Scs, perché possa fornire evidenze credibili rispetto a questi obiettivi conoscitivi.
Va sottolineato, infine, che la valutazione degli effetti di un intervento si basa su una conoscenza cumulativa. La replicabilità degli studi ne è una condizione necessaria. Ciò richiede che le informazioni necessarie alla valutazione siano accessibili a una pluralità di analisti, in condizione di parità con il valutatore investito di un ruolo “ufficiale”.

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