martedì 15 settembre 2009

Proporzionalità e gradualità della sanzione limiti invalicabili del potere disciplinare della PA

Interessantissimo articolo pubblicato sul http://www.ilsole24ore.it/ che commenta la sentenza del Tar Piemonte, Torino, sez. I, sentenza 8 aprile 2009 n. 953.
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In materia disciplinare la PA ha il dovere di valutare la gravità dei fatti ascritti al dipendente anche qualora siano stati accertati in sede penale con sentenza non passata in giudicato, essendo i due procedimenti autonomi.
Né è vincolata alla qualificazione del fatto da parte del giudice penale, potendo attribuire particolare disvalore e lesività alla condotta del funzionario, anche tenuto conto della sua qualifica. Nondimeno la sanzione disciplinare comminata deve rispondere ai principi di proporzionalità e gradualità che costituiranno, al contempo, i parametri e il limite di sindacabilità del legittimo uso del potere da parte del giudice, cui è precluso ogni apprezzamento in ordine al merito della valutazione compiuta dall'amministrazione.
Il fatto
Il caso scrutinato dal Tribunale amministrativo piemontese riguarda la sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione inflitta ad un vice brigadiere della Guardia di Finanza, per aver utilizzato il telefono di servizio allo scopo di effettuare chiamate a pagamento, a sfondo erotico, e la cui illegittimità era stata censurata dal militare sotto il profilo dell'eccesso di potere, sub specie di violazione del principio di gradualità e di ingiustizia manifesta, atteso che per lo stesso fatto egli era sì stato effettivamente condannato dalla Corte d'appello militare, ma con derubricazione dell'originaria imputazione da peculato ad appropriazione indebita, con sentenza peraltro non ancora passata in giudicato.
La pronuncia del foro torinese
Il Tribunale amministrativo, malgrado avesse in sede cautelare accolto le doglianze del militare tanto da concedergli l'invocata sospensiva, con la decisione in epigrafe ne ha poi rigettato il ricorso nel merito, rivedendo il suo orientamento anche in ossequio ai diversi principi espressi sul caso dal Consiglio di Stato, che, adito in sede d'appello dal ministero, ne aveva annullato l'ordinanza cautelare, confermando prima facie la legittimità del provvedimento sanzionatorio gravato.
In particolare, il Collegio torinese ha optato per la conformità a legge della sanzione impugnata, ritenendo che rispondesse al principio di proporzionalità, declinato nella sedes materiae in quello del gradualismo sanzionatorio, secondo un'indagine ab externo e da condursi sulla scorta della motivazione del provvedimento, essendo questa l'unica consentita al giudice amministrativo, al quale è fatto divieto di sostituirsi alla pubblica amministrazione sindacandone le scelte discrezionali, altrimenti violandosi il principio di legalità e di separazione dei poteri.
Criterio guida, quello della proporzionalità della sanzione che, nel caso specifico, secondo il tribunale, è stato osservato dall'amministrazione avuto riguardo al comportamento tenuto dal militare in violazione, per un verso, del giuramento di fedele osservanza delle leggi dello Stato, tra le quali è annoverato in primo luogo il codice penale, cui è riconducibile l'indebito uso per scopi personali del telefono di servizio e, per altro verso, del decoro e del prestigio del Corpo militare di appartenenza, stante la natura delle comunicazioni effettuate.
Né, secondo i giudici, costituisce fondato motivo di ricorso la pendenza per i medesimi fatti ascrittigli in sede disciplinare di un processo penale, non ancora concluso con sentenza passata in giudicato, stante il principio di separazione cui i due procedimenti sono improntati, secondo consolidata giurisprudenza.
Di tal ché la pubblica amministrazione ha il potere-dovere di accertare ed apprezzare autonomamente la rilevanza disciplinare della condotta tenuta da un suo funzionario, valutandone il disvalore alla stregua delle leggi e dei codici di comportamento applicabili a secondo della categoria di appartenenza, potendo, per questa via, pervenire anche a conclusioni diverse da quelle del giudice penale.
Le questioni rilevanti
Mentre nel diritto del lavoro privato e privatizzato, ai sensi dell'art. 2, co. 2, del Dlgs n. 165/2001, il procedimento disciplinare attiene alle infrazioni commesse dal lavoratore nell'ambito di ben determinati codici di comportamento, nel diritto del lavoro pubblico, soprattutto se speciale, quale quello dei Corpi militari, presenta contorni ben più ampi e indefiniti, venendo in rilievo ogni qual volta il funzionario violi non solo i precetti di legge, di regolamento o di direttive e di ordini che disciplinano il rapporto di servizio, bensì pure quando infranga le più penetranti regole deontologiche di gruppo, che, nel caso delle Forze armate, si spingono fino a costituire "regole di vita, che trascendono lo stesso status di militare e dovrebbero caratterizzare gli stessi rapporti politici, civili e sociali".
L'ordinamento disciplinare dei Corpi militari, infatti, esaltando l'orgoglio di appartenenza non solo alle Forze armate, ma all'intera Nazione, tende a valorizzarne lo spirito, dando pregnante rilevanza a quei profili morali ed etici della condotta tenuta dal militare, nella vita pubblica, come in quella privata , ormai recessivi negli altri settori di impiego, anche se alle dipendenze delle PA. Circostanza dimostrata anche dall'abolizione nei bandi di concorso dei requisiti della specchiata condotta e dell'idoneità morale.
Precetti comportamentali, questi, di rilievo disciplinare e che, per quanto riguarda la Guardia di Finanza.
Nondimeno, proprio l'evanescenza dei precetti in questione, unitamente all'ampia discrezionalità riconosciuta al Corpo nell'apprezzamento del disvalore del comportamento e della sanzione da applicare, hanno indotto la giurisprudenza amministrativa ad elaborare un reticolato di principi atti ad irreggimentarne il potere, trovando nel tempo il difficile punto di equilibrio tra l'esigenza di salvaguardare le prerogative dello Stato nella conservazione della credibilità del suo principale apparato, anche attraverso le sanzioni disciplinari, e l'esigenza di tutelare il personale militare in caso di un debordante esercizio di tale supremazia speciale.
Tra questi, oltre a quelli di immediatezza della contestazione, di tempestività dell'azione disciplinare e di difesa , che attengono più che altro al procedimento, ruolo preminente deve riconoscersi al principio di proporzionalità, la cui derivazione comunitaria ha indotto il Consiglio di Stato ad assumere a riferimento la giurisprudenza della Corte di giustizia europea al fine di delinearne la portata applicativa, onde evitare che per suo tramite il giudice sia tentato di introdurre surrettiziamente una smisurata, quanto innominata, ipotesi di giurisdizione di merito, che, viceversa, è ontologicamente tipica ed eccezionale, perché deroga al principio di separazione dei poteri cui è ispirato il nostro ordinamento.
A tal proposito, la Cge ha da sempre rilevato che il riscontro di proporzionalità riguarda solo "il carattere manifestamente inidoneo di un provvedimento in relazione allo scopo che l'istituzione competente intende perseguire", dovendo escludersi che il sindacato giurisdizionale possa "spingersi ad un punto tale da sostituire l'apprezzamento dell'organo competente con quello del giudice, valutando l'opportunità del provvedimento adottato ovvero individuando direttamente le misure ritenute idonee".
Dunque, per questa via, analogamente, premessa la valenza costituzionale del principio de quo ai sensi dell'art. 97 della Carta fondamentale, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che, pur sussistendo il generale obbligo dei pubblici poteri (legislativo ed esecutivo) di adottare le soluzioni più idonee ed adeguate al perseguimento dell'interesse generale cui sono preposti, col limite del minor sacrificio possibile per le posizioni soggettive coinvolte, nondimeno al giudice, in sede di verifica della legittimità dell'operato, non è dato sindacare il merito delle scelte discrezionali, siano esse di natura tecnica, amministrativa o politica, non potendo sostituirsi al titolare del potere, bensì dovendo attenersi ad una valutazione ab externo del provvedimento assunto, coi limiti dell'abnormità ed irragionevolezza.
Aberrazioni da escludersi quante volte la sanzione irrogata sia sorretta da adeguata motivazione e basata su fatti manifestamente gravi, tali da poter indurre ragionevolmente l'amministrazione a ritenerli lesivi del decoro del Corpo, ovvero oggettivamente contrari alle finalità cui è istituzionalmente preposto.
Né impinge la validità delle suesposte conclusioni l'apprezzamento del disvalore della medesima condotta già operato dal giudice penale, stante il radicato principio della separazione tra i due procedimenti, che reca in sé il potere della PA di attribuire diversa rilevanza disciplinare ai fatti, diverso essendo il bene-interesse che i due apparati normativi mirano a tutelare.
Difatti, anche dopo l'entrata in vigore della legge 27 marzo 2001, n. 97, che, innovando le disposizioni penali, sostanziali e processuali, ha ricondotto ad unità i due sistemi sanzionatori, sancendo l'efficacia nel procedimento disciplinare degli accertamenti in punto di fatto raggiunti in sede penale, la PA non ha del tutto perso il potere-dovere di valutare discrezionalmente la medesima condotta laddove, al contempo, violi le regole di comportamento proprie del suo ordinamento interno.

Conclusioni
In buona sostanza, dunque, il principio di proporzionalità e, per esso, della gradualità della sanzione, quale canone legale di raffronto tra lo scopo prefissato dalla norma comportamentale e la scelta sanzionatoria in concreto operata dalla pubblica amministrazione, è valso al giudice amministrativo per ritagliarsi un potere di sindacato piuttosto ampio sull'altrettanto penetrante supremazia speciale che l'ordinamento militare attribuisce al Corpo sui propri appartenenti.
Precario, tuttavia, il punto di equilibrio, essendo il sindacato giurisdizionale destinato tanto più ad arretrare in favore della più piena discrezionalità dell'amministrazione, quanto più la condotta ascritta al dipendente integri un illecito di scopo, piuttosto che di offesa.

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