La manovra economica dell'estate 2010 rivela ancora una volta le incoerenze del legislatore nel tentativo di riorganizzare e dare efficienza all'amministrazione pubblica. Almeno tre aspetti della manovra sono in evidente contrasto con la riforma Brunetta, entrata in vigore nemmeno un anno fa. Rimborsi negati a chi utilizza la propria auto per ragioni di servizio, dimezzamento degli investimenti in formazione e rinuncia agli incentivi economici mostrano come la ricerca di maggiore produttività, così come la meritocrazia, non siano altro che slogan.
La manovra economica dell’estate 2010 (il Dl 78/2010, convertito in legge 122/2010) rivela ancora una volta le incoerenze del legislatore nel tentativo di riorganizzare e dare efficienza all’amministrazione pubblica.
Almeno tre aspetti della manovra si pongono in evidente contrasto con la riforma Brunetta, a nemmeno un anno di distanza dalla sua entrata in vigore, mettendo in luce come la ricerca di maggiore produttività, così come la meritocrazia, siano più che altro slogan.
IL LEGISLATORE CAPO UFFICIO
Il primo elemento, simbolico del pauperismo che contraddistingue la manovra, riguarda il precetto secondo il quale il dipendente pubblico in missione non deve essere rimborsato se, allo scopo, utilizza la vettura propria. Strano.
La manovra, anche sulla scorta dell’impulso dato proprio dal ministro Brunetta per il contenimento delle spese per le auto di servizio, obbliga a risparmiare sulle spese di conduzione delle vetture degli enti il 20 per cento rispetto all’anno 2009.
Non pago, però, il legislatore ha eliminato il rimborso pari a un quinto del costo della benzina prima previsto per i dipendenti che ai fini della trasferta avessero utilizzato il proprio mezzo.
Sembra evidente che questo modo di procedere abbia poco a che vedere con la crescita dell’efficienza e lo stimolo a produrre di più. Posto che le attività in trasferta siano necessarie e funzionali alle attività degli enti, la sacrosanta attenzione alle spese sulle “auto blu” non avrebbe dovuto confondersi con la gestione diretta delle auto di servizio o delle trasferte. Troppo spesso il legislatore, privo di una conoscenza di dettaglio delle attività, si inserisce nella puntuale previsione di disposizioni di servizio, quasi fosse un “capo ufficio”. L’impiego delle auto private, il cui costo non appare eccessivo, in conseguenza di una contrazione del parco di auto pubbliche si sarebbe dovuto lasciare quanto meno immodificato. Oppure, richiedere una riduzione della spesa del 20 per cento.
La scelta di non attribuire più l’indennità chilometrica porta a conseguenze paradossali. Da un lato, non incentiva assolutamente la crescita della produttività. Infatti, i dipendenti dovranno utilizzare un parco macchine ridotto, oppure mezzi pubblici. La riduzione di ispezioni o attività necessariamente da svolgere anche in trasferta (si pensi alle funzioni degli assistenti sociali) sarà inevitabile. O, quanto meno, sarà ristretto il raggio d’azione dei dipendenti. Con ripercussioni non solo sulla produttività, ma anche sulla posizione di eguaglianza dei cittadini e delle imprese. Per esempio, saranno più facilmente oggetto di ispezioni e sanzioni fiscali solo le aziende operanti nel raggio d’azione dei mezzi pubblici, ma non le altre. Per non parlare del pericolo di caduta libera sulle ispezioni concernenti il lavoro: i cantieri edili, per esempio, molto difficilmente sono a tiro di mezzi pubblici.
UN TAGLIO AGLI INCENTIVI
Un secondo elemento che nei fatti priva di sostanza la ricerca della “meritocrazia” e della crescita di efficienza sta nella drastica riduzione delle spese per la formazione del personale pubblico, pari al 50 per cento di quanto investito nel 2009.
La manovra reintroduce pesanti tetti al turn-over, consentendo di sostituire solo il 20 per cento del personale cessato, ma contemporaneamente, dimezzando la formazione, impedisce di garantire una risorsa fondamentale per mantenere elevato il livello di competenza dei dipendenti, e supplire così alla diminuzione di quantità con una crescita della qualità del lavoro. Eppure, nella riforma Brunetta la formazione è considerata come strumento per premiare la maggiore produttività dei dipendenti.
Anche qui il legislatore non ha saputo andare oltre gli slogan: ha dovuto provvedere a tagli di spesa, incidenti, però, sull’organizzazione del lavoro attivando effetti a media lunga scadenza, del tutto divergenti da quelli della riforma della pubblica amministrazione, operata lo scorso anno.
Ultimo aspetto: la manovra congela per tre anni le retribuzioni, tanto da non riconoscere incrementi contrattuali anche a quel personale pubblico che di qua al 2013 partecipi a concorsi per la progressione della sua carriera: quei dipendenti avranno il riconoscimento della maggiore categoria giuridica, senza benefici economici. Inoltre, la regola del turn over costringerà, con non si sa quali formule, a ridurre nei fondi dedicati alla contrattazione aziendale le parti destinate proprio al risultato, in proporzione al personale cessato.
Insomma, mentre giustamente si predica la maggiore produttività, si persegue la riduzione drastica dei mezzi produttivi (vetture di servizio o rimborsi), il dimezzamento della formazione e la rinuncia agli incentivi economici. E l’agognata riforma della pubblica amministrazione resta, pirandellianamente, una, nessuna e centomila.
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