martedì 7 settembre 2010

Il lavoro pubblico resisterà alla manovra correttiva?

Ampio stralcio dell'articolo di Maria Barilà - Dirigente Funzione pubblica - pubblicato su Professione e imprese


Il Consiglio dei ministri del 25 maggio scorso, sul presupposto della necessità ed urgenza, ai fini della stabilizzazione finanziaria, ha varato una manovra in parte di contenimento della spesa pubblica ed in parte di incremento delle entrate, che rimarrà nella storia non tanto per l’abilità nell’aggiustare i conti pubblici o per i riflessi diretti sul piano fiscale, quanto certamente per il trattamento speciale che riserva ai lavoratori pubblici, a cui viene chiesto di fare un sacrificio per salvare il Paese da un possibile collasso finanziario e di subire misure che incidono sulle loro retribuzioni bloccandole per i prossimi quattro anni.
E chi può escludere in futuro eventuali proroghe del blocco delle retribuzioni dettate da nuove necessità, sempre in nome della stabilizzazione della finanza pubblica? Ma, più che una richiesta di un sacrificio, la misura appare come una richiesta ai dipendenti pubblici di compiere un atto di responsabilità per diverse ragioni.
In primo luogo, perché hanno avuto una crescita delle retribuzioni negli ultimi dieci anni pari al 39,7% a differenza di quelle del settore privato dove i salari sono aumentati del 25,7% (dati forniti dall’Aran). Se è per questo per la Corte dei conti la forbice sarebbe ancora più consistente perché la crescita delle retribuzioni pubbliche risulterebbe pari al 42,5% in dieci anni, rispetto al 24,8% dei privati.

Un’altra ragione per cui i lavoratori pubblici devono essere consapevoli di quanto a loro è richiesto è data dal fatto che godono del vantaggio della garanzia del posto di lavoro, non rischiano di essere licenziati quando l’attività di un ente viene chiusa, e la “cassa integrazione” non è prevista, in quanto l’extrema ratio, nel caso di chiusura di enti, è il ricorso alla mobilità di ufficio che consente, nei fatti, il riassorbimento di tutto il personale nel contesto ampio dell’intero apparato amministrativo. La stessa manovra finanziaria prevede misure di questo tipo, di riallocazione completa del personale, laddove dispone la soppressione di alcuni enti.

Un’altra ragione non dichiaratamente espressa, ma probabilmente pensata, è anche quella che questi lavoratori privilegiati e fortunati, se non sanno essere adeguatamente produttivi e arrecare ricchezza al sistema economico con una prestazione lavorativa in grado di erogare servizi pubblici che possano favorire lo sviluppo delle imprese ed una maggiore competitività economica, non devono neppure essere così ingrati da rifiutarsi di prestarsi generosamente e servilmente ad essere una sorta di fondo cassa di emergenza a cui lo Stato può ricorrere, al bisogno, attingendo ad esso, direttamente, facilmente, d’autorità, senza tanti scrupoli dato il livello della prestazione, per racimolare risorse finanziarie utili che hanno, tra l’altro il vantaggio di concretizzare non interventi tampone, ma misure definite dal ministro proponente “strutturalissime”, perché volte a realizzare risparmi definitivi, garantiti nel tempo, sicuri per sempre, in quanto ciò che oggi viene tolto, non potrà mai più essere recuperato, come si preoccupa opportunamente di precisare il decreto legge in argomento (Dl 31 maggio 2010, n. 78, “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale del 31 maggio 2010, n. 125).

Insomma, alla luce di questa manovra sembra che all’interno del Governo operino due diverse anime che in materia di lavoro pubblico non trovano univocità di vedute e quindi di intenti. Un’anima tenta di far compiere un salto di qualità alla pubblica amministrazione, spingendo con fiducia, ottimismo, spirito costruttivo verso interventi di sviluppo e miglioramento dei servizi, accompagnati da meccanismi di incentivazione e strumenti premiali di valorizzazione delle professionalità dei dipendenti pubblici, con soluzioni ordinamentali “strutturalissime” che, se prendessero piede, se fossero veicolate coerentemente dal Governo, realizzerebbero un meccanismo virtuoso capace di creare valore per il Paese e restituire dignità al lavoratore pubblico. Un’altra anima, invece, ritiene che il settore dei lavoratori pubblici, piuttosto che rappresentare un campo fertile su cui investire, sia un terreno privo di potenzialità, rispetto al quale, in via prudenziale, in una situazione di crisi economica e dell’euro, un intervento di riduzione del peso finanziario sostenuto per la sopravvivenza rappresenti un alleggerimento immediato e sicuro per l’economia e la società, soprattutto ora che, senza andare troppo per il sottile, occorre racimolare in tempi rapidi 24,9 miliardi di euro in due anni, tanto quanto serve per abbassare il rapporto tra deficit e Pil dal 5% attuale al 2,7% nel 2012, ossia al di sotto del 3%, così come richiesto dall’Unione europea per ristabilire la credibilità dell’Euro zona.
Ed a conti fatti il Governo è riuscito a centrare l’obiettivo e a ricevere il plauso da parte della Commissione europea, grazie anche all’apporto dei lavoratori pubblici e, più in generale, ai tagli previsti sulla spesa pubblica, alla riduzione dei costi della politica e della pubblica amministrazione. L’importante è trovare, quando serve, chi si sacrifichi, rectius chi possa essere sacrificato nel modo meno indolore possibile.

Struttura e contenuti del provvedimento
Le disposizioni che interessano il lavoro pubblico sono contenute nella prima parte del provvedimento che si compone, a sua volta, di 4 capi: il primo sulla riduzione del perimetro e dei costi della pubblica amministrazione, il secondo sulla riduzione dei costi degli apparati politici ed amministrativi, il terzo sul contenimento delle spese in materia di impiego pubblico, invalidità e previdenza, il quarto sulle entrate non fiscali.
Le principali disposizioni volte a ridurre il costo del lavoro pubblico sono contenute nel capo III ed in particolare nell’art. 9.
Tra gli interventi fondamentali contenuti nell’art. 9 vi è quello a cui si è fatto già cenno, che attiene alle misure di congelamento delle retribuzioni dei lavoratori pubblici ed al blocco dei rinnovi contrattuali.
La misura contenuta nel co. 1 dell’art. 9 stabilisce che, per gli anni 2011, 2012 e 2013, il trattamento economico complessivo - comprensivo del trattamento accessorio previsto dai rispettivi ordinamenti - dei singoli dipendenti pubblici, anche di qualifica dirigenziale, non può superare, in ogni caso, il trattamento in godimento nell’anno 2010. La portata di questa disposizione apparirebbe particolarmente critica ove si attribuisse alla formulazione utilizzata un significato letterale. In sostanza, congelare il trattamento economico per il triennio 2011-2013 del sig. Rossi potrebbe risultare meno problematico se il lavoratore nel corso del 2010 fosse sempre presente in servizio e pienamente produttivo. Acquisterebbe una criticità diversa laddove il “signor Rossi” avesse usufruito nel 2010 di un’aspettativa senza assegni. In tale circostanza, infatti, un’interpretazione letterale dell’espressione “singoli dipendenti pubblici” indurrebbe a non poter retribuire adeguatamente la prestazione lavorativa dell’impiegato, laddove lo stesso nel corso del triennio 2011-2013 fosse sempre presente in servizio, rappresentando l’erogato nel 2010 il massimo attribuibile. Per dare alla disposizione una lettura costituzionalmente orientata, si ritiene che ciascuna amministrazione, fermo restando il trattamento economico fondamentale dovuto, possa distribuire nell’arco temporale 2011-2013, a titolo di trattamento economico accessorio per i propri dipendenti, solo quanto complessivamente erogato nell’anno 2010, con un conseguente taglio dei relativi fondi. Per espressa previsione del decreto legge è fatta salva, in ogni caso, per ciascun anno l’indennità di vacanza contrattuale prevista a decorrere dall’anno 2010 dalla legge finanziaria del 2009 (art. 2, co. 35, della legge n. 203/2008).

La platea dei destinatari
L’intervento di congelamento del trattamento economico sopra descritto vede interessati i dipendenti, dirigenti e non, in regime di diritto privato o pubblico, di tutte le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istat, ai sensi dell’art. 1, co. 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196.
Si tratta delle amministrazioni pubbliche che concorrono al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, sulla base dei principi fondamentali dell’armonizzazione dei bilanci pubblici e del coordinamento della finanza pubblica. Ai fini della medesima legge n. 196/2009, per amministrazioni pubbliche si intendono gli enti e gli altri soggetti che costituiscono il settore istituzionale delle amministrazioni pubbliche individuati annualmente dall’Istat, entro il 31 luglio, sulla base delle definizioni di cui agli specifici regolamenti comunitari.
Il co. 2 dell’art. 9 individua, come platea dei destinatari, gli stessi definiti dal co. 1, ovvero sempre tutti i dipendenti, dirigenti e non, in regime di diritto privato e non, di tutte le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istat. A decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013, i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti di dette amministrazioni superiori a 90mila euro lordi annui sono ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150mila euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150mila euro; è garantito, tuttavia, un trattamento economico complessivo che non può essere comunque inferiore 90mila euro lordi annui La riduzione prevista dal primo periodo del presente comma non opera ai fini previdenziali. Per queste misure, che sono poi dei prelievi fiscali veri e propri, il legislatore si preoccupa di fornire una “giustificazione” al proprio operato specificando che le ragioni dell’intervento sono da imputare all’eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea.
Lo stesso co. 2 in esame riduce del 10% anche le indennità dei responsabili degli uffici di diretta collaborazione dei ministri, di cui all’art. 14, co. 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, aventi esclusive competenze di supporto e di raccordo con l’amministrazione, istituiti e disciplinati da ciascun ministero con apposito regolamento. La riduzione si applica sull’intero importo dell’indennità che rappresenta un unico emolumento,̀ sostitutivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale resa. Richiamando i responsabili degli uffici, la disposizione sembra essere riferita solo a coloro che ricoprono le posizioni apicali negli uffici di diretta, rispondendo ad una finalità equitativa, in relazione alla misura di decurtazione del 5% o del 10% sopra illustrata.
Già in questa parte di disciplina cambia la platea dei destinatari, ma, all’interno della stessa norma, è previsto un ulteriore importante vincolo di contenimento dei costi del lavoro pubblico che si applica soltanto ai titolari degli incarichi dirigenziali, generali e non, in servizio presso le amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, del Dlgs n. 165/2001. I trattamenti economici complessivi spettanti ai titolari degli incarichi dirigenziali, anche di livello generale, non possono essere stabiliti in misura superiore a quella indicata nel contratto stipulato dal precedente titolare ovvero, in caso di rinnovo, dal medesimo titolare, ferma restando la riduzione prevista nel presente comma.
Il co. 2 contiene tre diverse disposizioni con interventi diversi e con una platea differenziata di destinatari. Una migliore tecnica legislativa sarebbe certamente auspicabile per favorire un’omogeneità di contenuti all’interno di uno stesso comma.
Il co. 3 dell’art. 9 si applica, poi, ai soli titolari di incarichi di livello dirigenziale generale, in servizio presso amministrazioni pubbliche, come individuate dall’Istat, ai quali non può più essere corrisposta, già dalla data di entrata in vigore del decreto legge (31 maggio 2010), alcuna retribuzione connessa con l’espletamento di incarichi aggiuntivi. Come noto, nel rispetto del principio dell’onnicomprensività del trattamento economico, i compensi legati allo svolgimento di incarichi aggiuntivi confluivano nel fondo per essere poi riassegnati, in parte ai singoli dirigenti titolari degli incarichi, in parte ridistribuiti tra tutti i dirigenti dell’amministrazione. Ora sembra che, nella fattispecie, la parte spettante al dirigente di prima fascia rimanga tra le pertinenze del fondo o abbia una destinazione non meglio precisata. In sostanza tanto questo co. 3, quanto il co. 1, che fissa un tetto massimo sui prossimi costi del personale, potrebbero essere idonei a produrre economie, tenuto conto che eventuali risorse residue possono essere utilizzate solo a condizione che non creino di fatto incrementi retributivi in capo al personale.
Continua poi, all’interno dell’art. 9, la complessa previsione di altre misure di contenimento del trattamento retributivo dei lavoratori pubblici con un panorama di destinatari che va individuato di volta in volta.
Il co. 4 pone poi un limite ai rinnovi contrattuali del personale dipendente dalle pubbliche amministrazioni per il biennio 2008-2009, nonché ai miglioramenti economici del rimanente personale in regime di diritto pubblico per il medesimo biennio. Per entrambe le categorie di personale i rinnovi o le procedure negoziali non possono, in ogni caso, determinare aumenti retributivi superiori al 3,2%. La disposizione di cui al presente comma si applica retroattivamente anche ai contratti ed accordi stipulati prima della data di entrata in vigore del presente decreto; le clausole difformi contenute nei predetti contratti ed accordi sono inefficaci a decorrere dalla mensilità successiva alla data di entrata in vigore del decreto legge. I trattamenti retributivi saranno conseguentemente adeguati.
Il limite di cui al comma in esame non si applica al comparto sicurezza-difesa ed ai Vigili del fuoco.
Rimane singolare che eventuali incrementi superiori al 3,2% contenuti nei primi contratti sottoscritti non sono ripetibili, nel senso che è palese lo svantaggio dei comparti che hanno sottoscritto il Ccnl per ultimi o che debbono ancora sottoscriverlo.

Il contenimento del costo del lavoro pubblico
Dopo una parentesi di commi che riguardano il regime assunzionale delle amministrazioni centrali, il co. 17 riprende a dettare interventi che attengono al contenimento del costo del lavoro pubblico. Questa disposizione completa le misure poste in essere dal decreto legge dal momento che stabilisce che per il triennio 2010-2012 non si dà luogo, senza possibilità di recupero, alle procedure contrattuali e negoziali relative al triennio 2010-2012 del personale di cui agli artt. 2, co. 2, e 3 del Dlgs n. 165/2001. È fatta salva l’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale nelle misure previste a decorrere dall’anno 2010 in applicazione dell’art. 2, co. 35, della legge 22 dicembre 2008, n. 203.

Riflessioni finali
Richiamate sinteticamente le ulteriori misure in materia di limitazioni alle retribuzioni dei dipendenti pubblici, occorre svolgere qualche riflessione in merito agli effetti che il blocco dei contratti determina rispetto alla riforma Brunetta del lavoro pubblico ed alle importanti novità contenute nel decreto legislativo n. 150/2001.
Occorre evidenziare due possibili strade. Una prima strada è quella di immaginare che in mancanza di una sottoscrizione dei Ccnl per il triennio 2010-2012, l’ultrattività dei precedenti contratti collettivi sia confermata ove compatibile con il nuovo quadro normativo previsto dal decreto legislativo n. 150/2009, che si sostituirebbe nei contenuti ai precedenti Ccnl, attraverso l’istituto dell’inserzione automatica di clausole, in ragione della qualificazione della disciplina come imperativa. In sostanza il rapporto di lavoro sotto l’aspetto ordinamentale troverebbe la sua fonte nella legge che si integra con i precedenti Ccnl ove questi ultimi siano con essa compatibili. Ma, sarebbe meglio ed auspicabile che le parti, Aran ed organizzazioni sindacali, condividessero, magari in una sede trasversale quale può essere la contrattazione collettiva quadro (Ccnq), una disciplina transitoria di riferimento, magari come quella sopra descritta, che consenta di traghettare ai prossimi rinnovi contrattuali senza che i prossimi tre anni siano vissuti in un regime di confusione e sbandamento totale, che certamente non gioverebbe alle amministrazioni pubbliche, alle motivazione del relativo personale, al livello dei servizi erogati, al sistema economico del paese, alle esigenze di stabilizzazione della finanza pubblica che sono connesse anche con un buon uso delle risorse pubbliche sotto l’aspetto qualitativo e non solo ad un uso quantitativamente sempre più contenuto.
Detto ciò, non si manca di evidenziare che la filosofia che sta alla base della riforma Brunetta non viene meno. Le disposizioni strategiche contenute nel decreto legislativo n. 150/2009, ovvero i principi generali declinati dall’art. 2, asseriscono che ogni amministrazione pubblica è tenuta a misurare ed a valutare la ‘performance’ organizzativa ed individuale, adottando modalità e strumenti di comunicazione che garantiscono la massima trasparenza delle informazioni e secondo criteri strettamente connessi al soddisfacimento dell’interesse del destinatario dei servizi e degli interventi. Rispettare detti principi è condizione necessaria per l’erogazione di premi legati al merito ed alla performance. Secondo quanto previsto dall’art. 10 del decreto 150, la mancata adozione del Piano della performance fa scattare il divieto di erogazione della retribuzione di risultato ai dirigenti che risultano avere concorso alla mancata adozione del Piano, per omissione o inerzia nell’adempimento dei propri compiti, e l’amministrazione non può procedere ad assunzioni di personale o al conferimento di incarichi di consulenza o di collaborazione comunque denominati. Secondo l’art. 14 dello stesso Dlgs la validazione della Relazione sulla performance è condizione inderogabile per l’accesso agli strumenti per premiare il merito di cui al Titolo III. Non dimentichiamo che fra detti strumenti vi sono anche le progressioni di carriera e quelle economiche.
Si ricorda altresì che l’art. 18 vieta la distribuzione in maniera indifferenziata o sulla base di automatismi di incentivi e premi collegati alla performance in assenza delle verifiche e attestazioni sui sistemi di misurazione e valutazione adottati ai sensi del decreto in esame. Infine, l’art. 20 stabilisce che le disposizioni descritte hanno carattere imperativo, non possono essere derogate dalla contrattazione collettiva e sono inserite di diritto nei contratti collettivi ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419, co. 2, del codice civile, a decorrere dal periodo contrattuale successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto.
Ne deriva che sono già immediatamente efficaci.
Credo che utilizzare la manovra finanziaria per costruirsi un alibi per non dare attuazione alla riforma Brunetta sia in contrasto con la responsabilità dirigenziale ed amministrativa prevista dal nostro ordinamento e favorisca solo un maggior declino della pubblica amministrazione e del sistema economico paese.
Non dimentichiamo che una forte ulteriore ipoteca sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici è già insita in questa manovra anche per il prossimo triennio contrattuale. L’art. 9, co. 1, nel congelare il trattamento economico anche per l’anno 2013, di fatto compromette, almeno per il primo anno del prossimo triennio di contrattazione collettiva, possibili incrementi retributivi.
Di stampo anticostituzionale è poi l’ultimo periodo contenuto nel co. 21 dell’art. 9 dove è previsto che per il personale contrattualizzato le progressioni di carriera comunque denominate ed i passaggi tra le aree (quali visto che sono abrogate dal 1° gennaio 2010?) eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto per i predetti anni ai fini esclusivamente giuridici. Ciò è possibile se non vi è variazioni di mansioni. Una prestazione lavorativa che richiede lo svolgimento di mansioni superiori deve necessariamente essere retribuita con un trattamento economico e non può limitarsi ad un mero riconoscimento giuridico del nuovo status.
Queste considerazioni non celano un po’ di amarezza.
Tuttavia, all’appuntamento della prossima manovra finanziaria potrebbero i dipendenti pubblici essere chiamati ad un ulteriore atto di responsabilità soprattutto se scelgono di rimanere inattivi, arenati in un immobilismo pernicioso. Viceversa il loro potere contrattuale potrà avere un contenuto e consentire ad essi di esprimersi attivamente se saranno in grado, in questi anni di difficoltà economica, di rilanciare il ruolo che sono chiamati a svolgere a vantaggio dell’intero sistema economico.
Gli strumenti contenuti nel decreto legislativo n. 150/2009 rappresentano oggi un punto di partenza più che mai necessario.

Nessun commento: