Articolo di Sabino Cassese pubblicato il 30 ottobre 2017 su Il Corriere della Sera
«La Pubblica amministrazione è il vero problema italiano», ha detto Romano Prodi parlando a Milano il 26 ottobre scorso.
Essa «ci sta isolando dal mondo — ha aggiunto — a causa dell'incapacità di prendere decisioni nei tempi dovuti».
Ma che cosa la rallenta o la paralizza?
La prima causa è esterna, e sta nella esondazione del Parlamento, che amministra per legge. Ho letto la proposta di legge del bilancio 2018: entra in dettagli tanto minuti da impedire ogni movimento all'amministrazione. E la sfiducia nell'amministrazione che suggerisce questa iperregolazione asfissiante. Ma quest'ultima finisce per bloccare l'amministrazione. Il rimedio è peggiore del male.
La sfiducia nella burocrazia ha dettato, vent'anni fa, anche un altro correttivo, il cosiddetto «spoils system». Grazie ad esso, i governi nazionali e locali la fanno da padroni, nominando, promuovendo, sostituendo, non solo i vertici amministrativi. Un altro rimedio peggiore del male.
Se si sommano tutti questi condizionamenti, ci si rende conto che le amministrazioni pubbliche sono oggi cittadelle assediate, dove non c'è più discrezionalità, cioè possibilità di scelta, i burocrati sono preoccupati o addirittura spaventati e preferiscono non decidere (ancor più con il recente allargamento di misure preventive — sequestro e confisca — ai reati contro la pubblica amministrazione), resta ben poco dell'arte di amministrare.
Le burocrazie, a loro volta, non sono senza responsabilità. Amministrare vuol dire gestire, negoziare, decidere, un'attività complessa che richiede conoscenza ed esperienza, che si impara a svolgere meno sui libri e più attraverso il dearning by doing».
Limitate o condizionate in ogni modo nei loro poteri di decisione, spesso escluse dalla decisione, le amministrazioni si sono adattate al quieto vivere, a rispettare la forma, senza badare alla sostanza, ad aspettare la legge o a seguire i dettati di uno dei troppi controllori.
Si sono quindi dequotate, hanno perso i tecnici, mentre sono rimasti i burocrati, gestiscono loro stesse piuttosto che gestire lo Stato (alla presidenza del Consiglio dei ministri circa tre quarti del personale serve a tener acceso il motore, mentre solo un quarto si preoccupa di far marciare la macchina).
Da questa situazione non si esce calando sulle amministrazioni una nuova riforma amministrativa, ma liberandole dai troppi vincoli e dalle troppe minacce dettate dalla cultura del sospetto e coinvolgendole in un processo di rinnovamento che valorizzi e mobiliti i migliori (ce ne sono), rendendoli partecipi della gestione dello Stato.
Poi, all'interno, le amministrazioni debbono fare i conti con i controllori, la Corte dei conti e l'Autorità anticorruzione. Questi, invece di giudicare risultati, valutano spesso la legittimità di singoli atti. Molte delle norme che li riguardano sono dettate dalla cultura del sospetto, mirano alla prevenzione, mentre prima condizione di un governo libero è la repressione, non la prevenzione, una conclusione sulla quale concordarono i nostri «padri fondatori» Ricasoli, Farini e Zanandelli.
Un acuto studioso ha recentemente notato che la responsabilità dirigenziale, da responsabilità per violazione di obblighi di risultato, è divenuta responsabilità per obblighi di processo. Il dirigente incorre in responsabilità se omette di pubblicare informazioni in materia di procedimenti amministrativi, se adotta tardivamente il provvedimento amministrativo, se non predispone il piano anticorruzione, se omette la pubblicazione di moduli e formulari per l'avvio di procedimenti, se non trasmette documenti via Pec (posta elettronica certificata) tra amministrazioni pubbliche, se omette la pubblicazione delle informazioni previste nella sezione «amministrazione trasparente» e non adotta il programma triennale per la trasparenza e l'integrità, se non comunica gli elementi necessari al completamento e all'aggiornamento dell'indice degli indirizzi delle pubbliche amministrazioni, e così via.
Insomma, sulle spalle dei burocrati gravano molte responsabilità, nonostante che il loro margine di azione si vada riducendo.
E poi vengono i Tar e le Procure, che spesso dimenticano il senso delle proporzioni, seguono orientamenti diversi, senza coordinarsi, non rispettano l'«expertise» tecnica degli uffici e divengono i decisori di ultima istanza su ogni materia, con istruttorie troppo lunghe, decisioni sempre in ritardo.
Se si sommano tutti questi condizionamenti, ci si rende conto che le amministrazioni pubbliche sono oggi cittadelle assediate, dove non c'è più discrezionalità, cioè possibilità di scelta, i burocrati sono preoccupati o addirittura spaventati e preferiscono non decidere (ancor più con il recente allargamento di misure preventive — sequestro e confisca — ai reati contro la pubblica amministrazione), resta ben poco dell'arte di amministrare.
Le burocrazie, a loro volta, non sono senza responsabilità. Amministrare vuol dire gestire, negoziare, decidere, un'attività complessa che richiede conoscenza ed esperienza, che si impara a svolgere meno sui libri e più attraverso il dearning by doing».
Limitate o condizionate in ogni modo nei loro poteri di decisione, spesso escluse dalla decisione, le amministrazioni si sono adattate al quieto vivere, a rispettare la forma, senza badare alla sostanza, ad aspettare la legge o a seguire i dettati di uno dei troppi controllori.
Si sono quindi dequotate, hanno perso i tecnici, mentre sono rimasti i burocrati, gestiscono loro stesse piuttosto che gestire lo Stato (alla presidenza del Consiglio dei ministri circa tre quarti del personale serve a tener acceso il motore, mentre solo un quarto si preoccupa di far marciare la macchina).
Da questa situazione non si esce calando sulle amministrazioni una nuova riforma amministrativa, ma liberandole dai troppi vincoli e dalle troppe minacce dettate dalla cultura del sospetto e coinvolgendole in un processo di rinnovamento che valorizzi e mobiliti i migliori (ce ne sono), rendendoli partecipi della gestione dello Stato.
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