Circa un anno fa, il 6 luglio 2012, il governo Monti fece debuttare nel dibattito politico l’ennesimo anglicismo destinato a divenire di uso comune: spending review. Questo fu il nome assegnato al decreto legge n.95, poi convertito il mese successivo, il quale conteneva una serie di disposizioni mirate al contenimento della spesa pubblica corrente che avrebbero dovuto – nelle intenzioni – liberare a regime svariati miliardi di euro da destinare alla riduzione della pressione fiscale.
La spending review affrontava con coraggio il tema del personale della pubblica amministrazione, a tutti i livelli. Si tagliava del 20% il numero dei dirigenti statali, e del 10% quello degli impiegati. Gli organici delle forze armate venivano ridotti del 10%. Per quanto riguarda il personale degli enti locali, si stabiliva un concetto virtuoso: il Ministero avrebbe dovuto comunicare un parametro “standard” del numero di dipendenti dell’ente locale, tenendo conto di una serie di parametri tra cui la popolazione residente. Se un ente avesse avuto un numero di dipendenti superiore del 20% a tale parametro, sarebbe scattato il divieto di ulteriori assunzioni; con una dotazione superiore del 40%, invece, sarebbero scattati anche per gli enti locali le misure di esubero che sarebbero valse per l’amministrazione statale, e coincidenti con uno “scivolo” pensionistico secondo i requisiti pre-Fornero e procedure di mobilità volontaria o obbligatoria.
Mancano i famigerati “decreti attuativi” di tutti i provvedimenti connessi alla riduzione del personale; l’abolizione delle Province è immersa nel buio più totale, e ancora non è stata stabilita l’articolazione dei tagli agli enti locali per l’esercizio 2013, nonostante siamo ormai a metà anno. Le procedure per la dismissione e valorizzazione del patrimonio pubblico statale procedono ma con estrema lentezza, e ad oggi non hanno conseguito alcun risultato tangibile.
Ma soprattutto, il rischio di fallimento della cosiddetta “spending review” si ravvisa negli stessi documenti ufficiali di finanza pubblica.
Il Documento di Economia e Finanza 2013, approvato dal Parlamento poche settimane fa, riporta che i consumi intermedi della pubblica amministrazione (la voce su cui, in teoria, avrebbe dovuto agire la spending review) nel 2015 saranno pari a 132,30 miliardi, praticamente identici (ad essere precisi, un paio di milioni di euro superiori) a quelli del 2012. E nel 2017 voleranno a 138,71 miliardi, realizzando così un aumento del 4,8%. Siamo quindi ufficialmente di fronte al primo caso di spending review che su un orizzonte di cinque anni aumenta la spesa pubblica, invece di diminuirla.
Non è un caso.
Questo accade perché mancano tutti e tre gli elementi che invece hanno fatto il successo di analoghe manovre (in Gran Bretagna o in Germania, dove la riduzione di spesa pubblica decisa da Schroeder alla fine degli anni Novanta permise il taglio delle tasse che, assieme alle riforme del welfare, è la vera causa del successivo e attuale boom tedesco). Una manovra di razionalizzazione e riduzione di spesa pubblica ha successo se è fatta da un governo politico stabile che ha davanti un orizzonte di cinque (meglio dieci) anni, perché incidere sui meccanismi di formazione della spesa in questo paese non è tanto una questione economica, bensì dannatamente politica. Il secondo elemento è un’architettura statale che non imbrigli ogni decisione politica (le rare volte in cui vi è) in svariate decine di decreti attuativi e lungaggini amministrative, esclusivo patrimonio di una casta di burocrati statali che è più disposta ad ardere sul rogo di quanto non lo sia ad accettare una riduzione del proprio margine di manovra. E il terzo elemento è il modo in cui la spending review viene condotta: il decreto del governo Monti, a dispetto del nome, è una collezione di tagli lineari, null’altro. La vera spending review presuppone un’azione forte e decisa su ogni capitolo del bilancio statale, euro per euro, voce per voce, con una continua e tenace azione di benchmarking, comparazione dei costi, efficientamento interno, minimizzazione dei costi. Implica entrare nei meandri dei meccanismi di formazione della spesa e agire senza timore di violare santuari di interessi e di rendite da preservare, sulla base di un mandato politico forte. Implica un lavoro microeconomico, più che macroeconomico.
La storia del decreto 95 è una storia tipicamente italiana. La storia di un paese in cui l’importante è parlare delle cose. Non necessariamente farle.
Articolo di Luigi Marattin pubblicato su Qdr
1 commento:
Per questo siamo in fondo all'oceano e non ne usciremo mai.
Siamo un paese di chiacchiere e di politicanti indaffarati quasi solo a preservare i loro orti politici e non, altro che moderna democrazia parlamentare !
Per me, non c'è speranza per questo paese, è troppo mal ridotto !
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