A giudicare dal tenore di certi commenti su questo e altri blog in tema di debito pubblico e politica fiscale, ho l’impressione che si faccia molta confusione. I lettori più informati mi scuseranno se parto da nozioni ovvie, ma che a taluni sfuggono. Per semplificare l’esposizione divido l’argomento in tre parti:
Uno Stato che spende più di quello che incassa può coprire il deficit in due modi: o si indebita (emettendo titoli di stato) oppure stampa moneta. Tertium non datur, altrimenti si sarebbe scoperta la formula del Paese della Cuccagna.
Se il governo stampa moneta (oltre il livello necessario per condurre le normali transazioni economiche e finanziarie) presto o tardi introduce una forma di tassazione occulta sotto forma di inflazione (cioè un aumento generalizzato del livello dei prezzi al consumo) che colpisce i risparmatori e i percettori di redditi fissi concentrati di solito tra i ceti più bassi. Normalmente si produce inflazione nei beni e servizi, talora si produce inflazione nelle attività finanziarie (azioni e obbligazioni in primo luogo). I due casi portano a conseguenze molto diverse (non mi dilungherò troppo su questo), ma estremamente negative e al limite distruttive (esempi sono la Repubblica di Weimar, la disgregazone della Jugoslavia, lo Zimbabwe, l’Argentina, la crisi finanziaria globale del 2008).
Se il governo ricorre al debito, non crea inflazione fintanto che trova chi è disposto a finanziarlo comprando titoli pubblici. La sostenibilità del debito dipende dalle aspettative dei risparmiatori (nazionali ed internazionali) che non sono misurabili. Ad esempio il Giappone va avanti nonostante un rapporto debito/Pil vicino al 200%. Il Libano non ha avuto problemi a rifinanziare il proprio debito al 170-180% del Pil. La Turchia nel 1994 invece entrò in crisi con un debito intorno al 60% del Pil, il Portogallo ha dovuto chiedere l’intervento di emergenza con un debito all’83% del Pil.
Insomma, è difficile prevedere con esattezza quando una crisi di fiducia innesca una spirale che porta alla bancarotta dello Stato e quale evento costituisca la goccia che fa traboccare il vaso. Per di più al debito pubblico va aggiunto il debito attuariale del sistema pensionistico e quello delle banche (o altre imprese) implicitamente o esplicitamente garantito dallo Stato (l’Irlanda aveva un debito pubblico modesto ma si è accollata i debiti contratti dai banchieri che foraggiavano i politici).
Per quanto non si possa stabilire con esattezza il punto di rottura, si può valutare quando la corda rischia di spezzarsi al successivo strattone (Sylos Labini nel post di ieri lo definisce il “rischio sismico”). Il 10 marzo scorso avevo pubblicato un post su Noise from Amerika (in inglese) in cui prevedevo che in aprile il Portogallo non sarebbe stato in grado di rifinanziare il debito e avrebbe invocato l’intervento del Fmi e della Ue, come si è poi verificato.
Per giungere a quella previsione, io (e altri che avevano fatto simili analisi) avevo considerato una relazione ben nota: affinché il debito pubblico sia sostenibile nel lungo periodo gli interessi percentuali devono essere inferiori alla crescita nominale del Pil piu’ il saldo primario (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi) in rapporto al Pil. Per chi preferisce le formule, il concetto si può esprimere in simboli: i < prim + pil.
In soldoni significa che quanto lo stato spende per pagare gli interessi sul debito non può essere superiore (troppo a lungo) a quanto lo stato risparmia e alla crescita dell’economia. E’ un fatto (non una teoria) semplice e non servono studi avanzati per comprenderlo.
Se facciamo una verifica di questa formula per l’Italia usando il rendimento medio dei titoli di stato emessi nel nel 2010 vediamo che gli interessi sono abbastanza bassi, il 2,1%, mentre il saldo primario nel 2010 è stato quasi zero (-0,1% del Pil) e il Pil nominale è crescito un po’ meno dell’1,9% (il 2,2% se si confrontano gli ultimi trimestri del 2009 e del 2010 nei dati Istat che potete scaricare qui). Quindi la condizione di stabilità viene sostanzialmente soddisfatta (o marginalmente violata). Questi sono i numeri che ha in mente chi attribuisce a Tremonti il merito di aver “messo in sicurezza” i conti.
Ma se finora la situazione non è sfuggita di mano, per il futuro i margini rimangono angusti. Se la crescita rallenta ulteriormente (come indicano i dati sul Pil reale nel primo trimestre del 2011), oppure gli interessi aumentano, oppure non si mantiene la disciplina fiscale, si entra in zona rischio. Per questi motivi Standard & Poor ha emesso un outlook negativo, che di solito anticipa un declassamento del rating, citando le incertezze sulla situazione politica e quindi sull’abilità di tenere la barra se le condizioni interne o internazionali dovessero aggravarsi. E se il governo Scilipoti-Berlusconi dovesse ricorrere alla spesa pubblica parassitaria per comprare altre fette di consenso.
Articolo di Fabio Scacciavillani pubblicato su www.ilfattoquotidiano.it
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