di Carlo Mochi Sismondi, presidente FORUM PA - in Guida al Pubblico impiego n. 2/2010 pubblicato su http://www.ilsole24ore.it/
Quella delle azioni per la riduzione delle assenze nella PA è una storia articolata che comincia nel giugno del 2008 e che trova una sua provvisoria conclusione in queste prime settimane del 2010. Credo sia utile narrare gli ultimi episodi, ma anche ripercorrerla per esaminarne lo svolgimento, metterne in luce i protagonisti, sottolinearne, come in ogni storia che si rispetti, la "morale". Ma poi anche per scombinarla, come quelle "favole al contrario" di Gianni Rodari, per vedere se, trasformandone la trama, arriviamo a conclusioni più utili per cambiare in meglio questa pubblica amministrazione così impermeabile alle riforme.
Ma partiamo dai fatti: qualche settimana fa abbiamo appreso che nel mese di dicembre 2009 c'era stata una decisa inversione di tendenza e che le assenze per malattia nel pubblico impiego erano tornate e scendere e non di poco. Si tratta di una notizia: infatti, dopo un crollo significativo, dall'estate il trend era in crescita, sino a raggiungere un +24% a settembre rispetto allo stesso mese dell'anno precedente.
Il ministro Brunetta in una conferenza stampa ha attribuito questa svolta positiva al nuovo allargamento delle fasce di reperibilità passate da 4 a 7 ore al giorno. Allo stesso motivo, ma con segno inverso, era stato attribuita la crescita delle assenze che, cominciata a maggio-giugno 2009, aveva raggiunto il suo massimo appunto a settembre scorso.
Il ragionamento è semplice: teoricamente ci si poteva aspettare che, senza fenomeni esterni distorsivi, dopo un anno dalle prime azioni ci sarebbe stato un sostanziale assestamento delle assenze (sempre calcolate rispetto allo stesso mese del precedente anno per evitare effetti di stagionalità), invece, la curva presenta alcuni importanti flessi.
Proviamo ad esaminare le tre principali discontinuità.
La prima è proprio tra il maggio e il giugno del 2008 e risente dell'annuncio e poi dell'applicazione del "decreto 112" che, in buona sostanza, ha introdotto:
• una riduzione salariale per la malattia: "nei primi dieci giorni di assenza è corrisposto il trattamento economico fondamentale con esclusione di ogni indennità o emolumento, comunque denominati, aventi carattere fisso e continuativo, nonché di ogni altro trattamento accessorio";
• un deciso allargamento della fasce di reperibilità per le visite fiscali che sono passate da quattro al giorno (10.00 - 12.00; 17.00 - 19.00) come nel lavoro privato, addirittura a undici (8.00-13.00; 14.00-20.00).
Il secondo punto di svolta, di segno contrario, che fa transitare per la prima volta la curva in territorio positivo corrisponde, secondo la ricostruzione ufficiale del ministero, ad un restringimento proprio della fasce di reperibilità che, con un comma del decreto legislativo n. 78 del 1° luglio 2009 tornano ad essere di quattro ore come prima.
Il terzo drastico mutamento è quello con cui abbiamo iniziato: si torna ad essere più severi sulle fasce di reperibilità che passano a sette ore ed ecco che immediatamente le assenze calano, sino a poter prevedere il ritorno di nuovo al segno meno per il gennaio 2010.
In questo esperimento sociale avremmo quindi un fenomeno (le assenze per malattia) e una variabile principale che spiega in larga misura l'andamento della curva (le fasce di reperibilità).
Di fronte a questo risultato, che è difficile non interpretare come una prova della diffusione di comportamenti opportunistici nel pubblico impiego e della loro diretta dipendenza dalla severità dei controlli, si sono levati diversi ordini di obiezioni.
Si è detto che i dati non erano completi o esatti. Si è gridato al bluff (si veda, ad esempio, la querelle tra il ministro e l'Espresso), si sono contestate le correzioni per i picchi influenzali o si sono messe in evidenza eccezioni e casi particolari, ma in effetti posso dire con onestà intellettuale che l'impianto dei dati è solido e nella sua struttura tiene. Non è lì che possiamo cercare un ribaltamento della storia.
Si è detto che portare i dipendenti pubblici fisicamente al lavoro non vuol dire farli lavorare, e questa mi sembra una corretta ovvietà. Certamente ridurre le assenze non basta, né sono accettabili facili inferenze su quanto lo Stato avrebbe "guadagnato" (ho persino visto fare calcoli demenziali di milioni di euro risparmiati). Ma, come ci insegna la matematica, il non essere condizione sufficiente non implica in sé il non essere necessaria. Sgombrato, quindi, il campo dalla sciocchezza dell'essere sufficiente, rimane da dimostrare se la maggiore severità sulle assenze (meno soldi e più controlli) è necessaria per dare una mano all'indispensabile e eterna riforma della PA.
Per farlo ribalterei la storia, lascerei per un attimo perdere assenze, fasce e malattie e tornerei ai fondamentali principi che permettono a qualsiasi organizzazione complessa di creare le condizioni per cui i lavoratori aumentino la loro produttività in un clima di "benessere organizzativo".
Quella delle azioni per la riduzione delle assenze nella PA è una storia articolata che comincia nel giugno del 2008 e che trova una sua provvisoria conclusione in queste prime settimane del 2010. Credo sia utile narrare gli ultimi episodi, ma anche ripercorrerla per esaminarne lo svolgimento, metterne in luce i protagonisti, sottolinearne, come in ogni storia che si rispetti, la "morale". Ma poi anche per scombinarla, come quelle "favole al contrario" di Gianni Rodari, per vedere se, trasformandone la trama, arriviamo a conclusioni più utili per cambiare in meglio questa pubblica amministrazione così impermeabile alle riforme.
Ma partiamo dai fatti: qualche settimana fa abbiamo appreso che nel mese di dicembre 2009 c'era stata una decisa inversione di tendenza e che le assenze per malattia nel pubblico impiego erano tornate e scendere e non di poco. Si tratta di una notizia: infatti, dopo un crollo significativo, dall'estate il trend era in crescita, sino a raggiungere un +24% a settembre rispetto allo stesso mese dell'anno precedente.
Il ministro Brunetta in una conferenza stampa ha attribuito questa svolta positiva al nuovo allargamento delle fasce di reperibilità passate da 4 a 7 ore al giorno. Allo stesso motivo, ma con segno inverso, era stato attribuita la crescita delle assenze che, cominciata a maggio-giugno 2009, aveva raggiunto il suo massimo appunto a settembre scorso.
Il ragionamento è semplice: teoricamente ci si poteva aspettare che, senza fenomeni esterni distorsivi, dopo un anno dalle prime azioni ci sarebbe stato un sostanziale assestamento delle assenze (sempre calcolate rispetto allo stesso mese del precedente anno per evitare effetti di stagionalità), invece, la curva presenta alcuni importanti flessi.
Proviamo ad esaminare le tre principali discontinuità.
La prima è proprio tra il maggio e il giugno del 2008 e risente dell'annuncio e poi dell'applicazione del "decreto 112" che, in buona sostanza, ha introdotto:
• una riduzione salariale per la malattia: "nei primi dieci giorni di assenza è corrisposto il trattamento economico fondamentale con esclusione di ogni indennità o emolumento, comunque denominati, aventi carattere fisso e continuativo, nonché di ogni altro trattamento accessorio";
• un deciso allargamento della fasce di reperibilità per le visite fiscali che sono passate da quattro al giorno (10.00 - 12.00; 17.00 - 19.00) come nel lavoro privato, addirittura a undici (8.00-13.00; 14.00-20.00).
Il secondo punto di svolta, di segno contrario, che fa transitare per la prima volta la curva in territorio positivo corrisponde, secondo la ricostruzione ufficiale del ministero, ad un restringimento proprio della fasce di reperibilità che, con un comma del decreto legislativo n. 78 del 1° luglio 2009 tornano ad essere di quattro ore come prima.
Il terzo drastico mutamento è quello con cui abbiamo iniziato: si torna ad essere più severi sulle fasce di reperibilità che passano a sette ore ed ecco che immediatamente le assenze calano, sino a poter prevedere il ritorno di nuovo al segno meno per il gennaio 2010.
In questo esperimento sociale avremmo quindi un fenomeno (le assenze per malattia) e una variabile principale che spiega in larga misura l'andamento della curva (le fasce di reperibilità).
Di fronte a questo risultato, che è difficile non interpretare come una prova della diffusione di comportamenti opportunistici nel pubblico impiego e della loro diretta dipendenza dalla severità dei controlli, si sono levati diversi ordini di obiezioni.
Si è detto che i dati non erano completi o esatti. Si è gridato al bluff (si veda, ad esempio, la querelle tra il ministro e l'Espresso), si sono contestate le correzioni per i picchi influenzali o si sono messe in evidenza eccezioni e casi particolari, ma in effetti posso dire con onestà intellettuale che l'impianto dei dati è solido e nella sua struttura tiene. Non è lì che possiamo cercare un ribaltamento della storia.
Si è detto che portare i dipendenti pubblici fisicamente al lavoro non vuol dire farli lavorare, e questa mi sembra una corretta ovvietà. Certamente ridurre le assenze non basta, né sono accettabili facili inferenze su quanto lo Stato avrebbe "guadagnato" (ho persino visto fare calcoli demenziali di milioni di euro risparmiati). Ma, come ci insegna la matematica, il non essere condizione sufficiente non implica in sé il non essere necessaria. Sgombrato, quindi, il campo dalla sciocchezza dell'essere sufficiente, rimane da dimostrare se la maggiore severità sulle assenze (meno soldi e più controlli) è necessaria per dare una mano all'indispensabile e eterna riforma della PA.
Per farlo ribalterei la storia, lascerei per un attimo perdere assenze, fasce e malattie e tornerei ai fondamentali principi che permettono a qualsiasi organizzazione complessa di creare le condizioni per cui i lavoratori aumentino la loro produttività in un clima di "benessere organizzativo".
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