Tra le cause principali della crisi italiana vi è certamente il progressivo decadimento dell’insieme degli apparati pubblici, che in diverse situazioni sono ormai prossimi al collasso. Nonostante l’onestà e l’impegno della grande maggioranza degli addetti, risultano assai diffuse inefficienza e corruzione, con una tendenza generale al peggioramento.
Basta vedere i titoli dei giornali: da Mafia Capitale alle Grandi Opere finite in tribunale, dalla mancata repressione dell’evasione fiscale all’aumentato carico di oneri burocratici per cittadini ed imprese, va registrato il fallimento dei tentativi di riforma pure tentati in questi ultimi anni: la legge anticorruzione, il codice degli appalti, le leggi di semplificazione.
Soprattutto, più in generale, è fallita l’ennesima riforma della Pubblica amministrazione tentata dal governo Renzi e dal ministro Marianna Madia, ovvero la legge delega 124 del 2015, in particolare sul punto del rapporto politica-amministrazione e degli incarichi dei dirigenti.
Sta di fatto che questa è la sesta “ riforma“ della Pubblica amministrazione in venticinque anni. Definendole con i nomi dei proponenti, abbiamo avuto negli anni ’90 la Amato-Cassese e le due di Bassanini, dopo il 2000 la Frattini e la Brunetta, ed ora la Madia.
Col buon andamento dell’amministrazione che diventa un problema sempre più grande, mentre negli apparati pubblici si diffonde la sfiducia, fino al rigetto istintivo della stessa parola “riforma”.
Sei riforme anche diverse, per l’ ampiezza, la profondità e la coerenza delle modifiche apportate, ma tutte in vario modo collocate sulla linea della privatizzazione.
Al di là della stessa ideologia neoliberista s’è affermata, anche in Italia, la cultura del “meno Stato più mercato”, ovvero l’idea di fondo che il privato funziona comunque meglio del pubblico. Da questa cultura è nato un indirizzo generale che ha impattato sul sistema amministrativo per ragioni diverse, in modi diversi ed a più livelli.
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