Non passa giorno senza che venga sottolineato quanto sia urgente riformare la pubblica amministrazione, a cominciare dalla sua dirigenza. Eppure i tentativi di intervento non sono mancati: dalla riforma avviata da Sabino Cassese nei primi anni '90, alla riforma Bassanini di fine anni '90, fino alla più recente riforma Brunetta dell'ultimo governo Berlusconi.
Perché gli interventi passati non hanno dato tutti i risultati sperati? E cosa fare in concreto per assicurare al nostro Paese una burocrazia all'altezza dei civil servants inglesi o dei grand commis francesi?
Una prima risposta è che bisogna innanzitutto evitare la "trappola giuridica" in cui sono cadute le precedenti riforme. Non basta scrivere nuove norme per cambiare un settore prigioniero di interessi, prassi e culture fortemente consolidati.
Per sbloccare la situazione bisogna partire dalle persone, e in particolare da chi occupa posizioni apicali. Cioè occorre rinnovare profondamente i dirigenti e dare spazio alle persone più capaci e competenti, siano esse già operanti negli apparati o da reclutare all'esterno.
È da questa premessa che parte un nuovo rapporto elaborato nell'ambito del forum Idee per la crescita, per suggerire un percorso completo di riforma della dirigenza delle amministrazioni centrali.
Il rapporto definisce innanzitutto alcuni obiettivi concreti: riduzione di almeno il 10% dei dirigenti in servizio, ricambio di almeno la metà dei dirigenti nel medio periodo, riduzione dell'età media, bilanciamento delle lauree di provenienza (oggi prevalentemente in giurisprudenza), presenza significativa di dirigenti con esperienza internazionale, aumento della mobilità all'interno del settore pubblico e con il settore privato (quest'ultima oggi quasi del tutto assente).
Tutto ciò comporta un massiccio ricambio di personale, attraverso l'immissione di una quota rilevante di nuovi dirigenti e una gestione attenta del turn-over, oltre alla valorizzazione dei dirigenti in servizio più capaci e meritevoli.
Per raggiungere questi obiettivi, sono necessarie anche rilevanti riforme del quadro normativo e della prassi gestionale.
Innanzitutto occorre una svolta radicale nei sistemi di selezione e reclutamento. Il concorso pubblico andrebbe sostituito con un'abilitazione, condizione necessaria ma non sufficiente per accedere ad un ruolo di dirigente pubblico. La selezione effettiva dovrebbe essere affidata a appositi centri specializzati e seguire metodologie consolidate, quale ad esempio il sistema in atto presso l'European Personnel Selection Office dell'Unione Europea. A questo dovrebbero affiancarsi percorsi specifici per i giovani talenti, e investimenti sulla qualificazione continua delle competenze con iniziative formative di standing internazionale.
In secondo luogo, è importante assicurare maggiore flessibilità al rapporto d'impiego dei dirigenti, senza per questo correre il rischio di mettere gli stessi in balìa della politica. Oggi il sistema di inquadramento dei dirigenti ministeriali si basa sulla distinzione tra primo e secondo livello. Questo ha l'inconveniente che, una volta promosso al primo (e più alto) livello, un dirigente non può più essere retrocesso. Meglio sarebbe avere un ruolo unico, che consentirebbe rotazione e mobilità anche verticale (cioè tra posizioni che comportano gradi diversi di responsabilità) in entrambe le direzioni.
In particolare, il primo inserimento nel ruolo di dirigente dovrebbe essere con contratto triennale, soggetto a conferma successiva. Il conferimento dell'incarico dovrebbe essere temporaneo e azzerarsi a scadenza. L'incarico dovrebbe essere riassegnato sulla base delle competenze dimostrate e dei risultati conseguiti, nel rispetto del principio di rotazione obbligatoria dopo due mandati nello stesso incarico.
In terzo luogo, occorre intervenire sulle regole che governano la risoluzione dei contratti di lavoro. A differenza di quanto avviene nel settore privato, oggi un dirigente pubblico è di fatto inamovibile. Questa rigidità non ha ragioni valide di sussistere e impedisce un'efficiente gestione del personale pubblico. Le modalità di interruzione del contratto di lavoro dovrebbero essere sostanzialmente equiparate a quelle del settore privato e occorrerebbe facilitare il ricorso allo strumento della risoluzione consensuale incentivata del rapporto di lavoro per accelerare il turn-over.
Infine, le remunerazioni dei dirigenti andrebbero collegate in modo più diretto e oggettivo ai risultati delle strutture dirette, nell'ambito di un sistema strutturato di valutazione, imperniato anche sui giudizi di diversi valutatori, vertici amministrativi, interlocutori, colleghi e dipendenti.
In questi giorni molti articoli di stampa hanno sottolineato che i dirigenti pubblici italiani sono pagati molto più delle loro controparti in altri paesi europei, sebbene il reddito pro capite italiano sia più basso che negli altri paesi. Ciò riguarda, in particolare, i ruoli di vertice e di diretta collaborazione con la politica. Il rapporto svolge un'analisi puntuale delle retribuzioni dei dirigenti ministeriali, facendo emergere una grande disomogeneità di situazioni. Queste anomalie vanno corrette.
Ma più ancora del livello assoluto della remunerazione, è importante che essa sia davvero collegata a elementi variabili connessi a recuperi di efficienza, riduzione della spesa e produzione di risultati. Tutte queste modifiche normative dovrebbero porsi l'obiettivo di accompagnare un processo di trasformazione, creando un ambiente più favorevole all'azione dei dirigenti di maggiore qualità. In tal senso è fondamentale anche una revisione della disciplina della responsabilità dirigenziale, a partire da quella del danno erariale, in favore dell'introduzione di sistemi premianti e sanzioni collegati ai risultati conseguiti.
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